Steven Wilson Interview Milano Metal Hammer 2013
Intervista a Steven Wilson condotta da Filippo Pagani per Metal Hammer, n° 02/03 2013
Prolifico (anche troppo) e versatile, creativamente solitario ma disponibile alle collaborazioni, onnivoro amante della spiritualità jazz abbinata alle articolazioni del rock. Con ‘The Raven That Refused To Sing’ Steven Wilson coccola le tempie e dimena i nervi di chi non sa privarsi dei suoi osannati Porcupine Tree… e non solo. 
( Photo credit Naki ) Nel lussuoso hotel della centralissima piazza Fontana di Milano, Steven Wilson è facilmente confondibile con il mobilio. Le varie estensioni della sua fluente personalità, Porcupine Tree in primis, Blackfield, Storm Corrosion ecc. al contrario, giganteggiano in tutti i reparti della goduria per i sensi. Seduto nel morbido angolo di un enorme stanzone, beve acqua minerale e mangiucchia dolcetti assortiti. Magro come un chiodo e nero-vestito, colui che il mondo intelligente (formato da gente intelligente che brama per musica intelligente) apprezza e riconosce nei panni di factotum e music-sitter per antonomasia, emerge nella sua autorità soltanto se lo si scruta dietro le fini lenti dei suoi occhiali da vista. La quintessenza del musicista vero risiede nei suoi cinquanta chili di salute: se ne sbatte delle cifre mai viste a quattro o cinque zeri (“la ricchezza la lascio ai parassiti del pentagramma, quelli con poca fantasia”), riconosce le sue fortune (“faccio quello che amo, e non muoio di fame”) e le ‘mancanze’ che determinano parte della sua sopravvivenza (“sono grato di non sentire la pressione tipica che grava sulle spalle di un padre e marito: posso concedermi un po’ di egoismo”). Ribadita la grandezza dell’uomo, spostiamo il radar sull’artista. E su ‘The Raven That Refused To Sing’, terzo capitolo dell’avvincente, tentacolare parentesi solista che il multi-strumentista londinese si concede a intervalli regolari… Ad un primo impatto sorge spontanea l’associazione con le cosiddette ‘nursery rhyme’, le favolette della buonanotte un po’ crude e scatena-brividi che taluni genitori britannici malati di cinismo sono soliti illustrare ai loro figlioletti… “Per la precisione, il ‘Corvo Che Si Rifiuta Di Cantare’ è una delle sei storie legate al soprannaturale che compongono il disco. Una favola che somiglia più ad una leggenda, dal sapore tradizionale e per nulla compresa nel calderone dei moderni racconti horror-gotici. Tu hai citato le ‘nursery rhyme’, ed è un paragone calzante. Le fiabe della tradizione britannica, e in generale nordeuropea, possiedono delle marcate venature dark, esattamente come i testi della title-track e delle restanti canzoni presenti nell’album. Ognuno di questi pezzi è basato su fatti ultraterreni, dai contorni tenebrosi – e sulla questione che siano prodotti di fiction o più sinistramente attendibili, lascio che siano i lettori/ascoltatori a stabilirlo.” Ricordi una storia, di quelle che ti sono state narrate in tenera età, che ti ha particolarmente impressionato…per non dire spaventato? “Per alcune settimane rimasi completamente coinvolto, quasi ossessionato, dall’idea che potessero esistere i fantasmi. Non si tratta di una storia, ma di una foto. Fu un mio compagno di classe, nelle scuole primarie, a portare in aula un libro nella quale erano pubblicate foto di fantasmi spontanei. Non ho mai saputo se quelle foto fossero autentiche; so soltanto che per diverso tempo non sono riuscito a chiudere occhio, tanta era la mia paura in proposito. Poi, crescendo, ho imparato a constatare che l’Inghilterra, al pari di tutta l’isola britannica, è ricchissima di luoghi in cui si sono verificati degli avvistamenti spettrali.” I fantasmi classici, intesi come anime di persone defunte, appaiono ovunque. Tutto il mondo ne è pieno. Solo che, a differenza di molti altri Paesi, l’Inghilterra non affronta il fenomeno infarcendolo di spiritosaggini e incredulità, ma con con piglio serio e scientifico … “Poco, ma sicuro. I fantasmi, gli spettri, o comunque li si voglia chiamare, esercitano un fascino indescrivibile, che mette a nudo anche lo scetticismo più bieco. La prova della loro esistenza getta luce su una delle possibili destinazioni che ci attendono dopo che il nostro cuore avrà cessato di battere. Per quanto romantica, la mia teoria è questa: le persone che in vita hanno lasciato interrotto qualcosa di importante, non potranno morire completamente. Ciò mi conduce a delle serie riflessioni sulla mia vita, sui dispiaceri che l’hanno contraddistinta e resa unica, irripetibile. Più gli anni aumentano – ed io sono nella mia quinta decade – più tendo a guardarmi indietro. Guardo sempre avanti, perché è nel futuro che vivrò il resto dei miei giorni, ma non posso fare a meno di guardarmi alle spalle: a ciò che ho fatto e ciò che non ho fatto, a ciò che è funzionato e ciò che ha funzionato meno. E molto altro ancora. Tutti queste cose, definite rimpianti, assumono a loro volta le sembianze di spettri. Maggiore è il loro numero, maggiore sarà la chance di ripresentarsi sotto forma di fantasma, dopo la morte fisica. La teoria in cui lo spirito del defunto rifiuta di abbandonare la Terra allo scopo di mettere a tacere i propri rimpianti, apre i varchi a molte intepretazioni…ed è molto più stimolante della classica storiella gotica giocata sui brividi a buon mercato, secondo me.” Passiamo alla musica. Echi e anche profusioni di Soft Machine e King Crimson dominano gli spazi aperti del disco. E nel leggere il nome di Alan Parson nella lista delle figure coinvolte, ho subito pensato ad un piano di lavoro memore della vecchia scuola… “Parecchio old school, già. Non è certo segreta la mia venerazione totale per le produzioni dei primi anni Settanta. E non parlo solo di progressive: qualsiasi album datato tra il ‘70 e il ‘74 possiede un suono da leccarsi le orecchie! Organico, vibrante, dorato. Ed è così che desidero che sia ogni mio album. Volevo quindi un ingegnere del suono che fosse in grado di coniugare il pathos maturato nell’esperienza analogica con la registrazione digitale, amica mia, oggigiorno insostituibile per praticità e velocità. Alan era in cima alla lista, staccato di parecchi punti dal secondo (di cui, per correttezza, Steven non ha voluto rivelarmi l’identità, nda). Non gli manca nulla. E poi, importantissimo: lui è stato il ragazzo che ha registrato l’album per eccellenza, quello che conoscono tutti, quello che a giudizio del mondo intero detiene il sound più bello in assoluto…” Mi vedo costretto a menzionare ‘The Dark Side of the Moon’, dei Pink Floyd, casomai esistesse ancora qualche animale che legge riviste musicali e lo ignori… “Il fatto di averlo al mio fianco è stato fonte di insegnamento senza precedenti. Più volte, sin da quando ho iniziato a lavorare in questo ambiente, ho avvertito l’impressione di essermi perso l’inizio di tutto (sarà perché all’alba degli anni Settanta eri solo un bambino, nda), ed oggi mi sembra di aver colmato, almeno in parte, questa lacuna. L’album possiede anche le corde del tributo a quel tipo di sound Settantiano, scorre magnificamente, proprio come me lo ero immaginato. Alan comunque è stato il primo, e anche unico, ad essere contattato. Mi ha un po’ sorpreso che fosse a conoscenza dell’operato di un certo Steven Wilson…” Steven, cosa rispondi a coloro che ti accusano di riproporre la tua collaudata, e vincente, formula compositiva? L’hai trovata, e non la abbandoni più. Io – sappilo – dissentisco. “Sfrutti una formula quando replichi il medesimo lavoro anno dopo anno, con minime e insignificanti variazioni. Nei quattro ultimi album da me realizzati (due con i Porcupine Tree, uno a nome Storm Corrosion e questo ‘The Raven That Refused To Sing’) compaiono quattro metodi dissimili di registrazione e altrettanti modi differenti di concepire il rock, nella sua accezione progressiva ed eclettica. Sarebbe frustrante e noioso, per me, registrare di continuo il medesimo disco, cambiando i titoli e i testi alle canzoni. Credo comunque che la personalità di un musicista non debba venire meno: sperimentare e osare è sacrosanto, ma qualche elemento ricorrente deve restare. Può essere la struttura di alcuni brani, l’utilizzo di alcuni accordi, l’approccio lirico: i trademark non devono disperdersi, poiché sono quelli a restare impressi nella memoria dei fan. Ovviamente il confine tra ‘avere una formula’ e ‘avere personalità’ è parecchio sottile e soggetto a valutazioni altamente individuali, e gli album di Neil Young – ad esempio – lo dimostrano. Ma nel mio caso posso affermare che i miei album sono diversi…e simili allo stesso tempo. Perché io, in fondo, rimango sempre lo stesso uomo.” Prima di inoltrarci nell’intervista vera e proprio, abbiamo parlottato della sfera economica. Tanti gettano fango su Internet, per i soliti motivi che conosciamo a menadito… “Sì, ma occorre guardare il bicchiere mezzo pieno. Con Internet puoi vendere direttamente ai tuoi fan. Nessun intermediario, quindi, che lucra alle tue spalle. Prima, tramite i negozi e le figure di commercianti legati all’ambiente musicale, ricavavi 60 centesimi per ogni album venduto; oggi, grazie alla vendita diretta, ricavi un netto di 6 euro. Puoi anche vendere poco o nulla nei canonici store e centri specializzati, ma ti rifai grazie alla lealtà dei tuoi fan. Con Internet posso interagire direttamente con loro, percepirne le vibrazioni, diventare un loro amico, oltre che il fornitore di musica preferito. Se poi consideri che ad ogni nuova uscita vi sono almeno 10mila persone, da tutto il pianeta, disposte a pagare 10 euro per acquistare l’album direttamente dal sito, capisci che si può guadagnare una bella cifra. Che in parte re-investo per altre attività correlate alla musica, e in parte uso per il mio auto-sostentamento”. Mai pensato di comporre musica per il cinema? “E’ una delle mie massime ambizioni, forse la più grande, finora rimasta insoddisfatta. Ma non vorrei limitarmi alla colonna sonora: girare un film, anche come co-regista, affiancato ad un regista più esperto…quello sì che sarebbe il top! E’ necessaria una giusta combinazione di fortuna e di conoscenze mirate nel settore. Chi compone musica per film dedica anima e corpo, per 15 ore al giorno e intere settimane, al proprio lavoro. Guarda Hans Zimmer o John Williams: non fanno altro! Chi proviene dal rock e dal pop non ha vita facile, in quanto deve imparare ad adottare una forma mentis del tutto nuova. Non stupisce, quindi, che i registi e i produttori diffidino dagli artisti di questa categoria. Vanno sui pezzi grossi da conservatorio. Accade assai di rado che un film-maker affidi un’intera colonna sonora ad un gruppo rock. Sia chiaro: mi riferisco alla creazione di pezzi appositi, non alla cessione di parte dei diritti di un brano già editato. Che io sappia, l’unico film che negli ultimi dieci anni ha rotto questo tabù è stato ‘The Social Network’, di David Fincher. E la sola mosca bianca del rock ‘cinematico’ è Trent Reznor. Devo sperare che qualche bravo regista – possibilmente non di commedie adolescenziali o rosa – sia anche mio fan. O che un mio fan diventi un bravo regista.” Tu sei la stella. E qui non ci piove. Mi sembra però legittimo spendere qualche parola su Nick Beggs e Theo Travis, gli unici due turnisti di ‘Grace For Drowning’ (precedente sforzo solista) che compaiono anche alle dipendenze di questo ‘Corvo che si Rifiuta di Cantare’… “La mia band è stata messa in piedi esclusivamente per la dimensione live, per il tour di ‘Grace For Drowning’, e mi sono stati consigliati da alcune persone fidate dell’ambiente. Adam Holzman è stato addirittura un membro alle dipendenze di Miles Davis (onore di pochissimi ancora in vita, nda) e mi è stato suggerito da Jordan Rudess dei Dream Theater. Nick e Theo hanno mostrato una versatilità e una perizia strumentale non comune, quindi li ho riconfermati. Posso solo ritenermi fortunato: non è da tutti poter contare su un lotto di musicisti così straordinari. Credimi!”
Steven Wilson Project
 ( Articolo a cura di Filippo Pagani per Metal Hammer )( Photo credit Naki ) “WOOOW!”. A bocca spalancata. Tale è rimasto Steven Wilson nel sapere che, agli occhi del sottoscritto, risulta il mix cromosomico di Alan Parson, Brian Eno e Phil Spector. “Non me l’ha mai detto nessuno…mi hai sconvolto con questa affermazione”. Tre professionisti del settore ‘musica con un’anima’, tre genietti che hanno conferito spessore all’arte del pentagramma. Magari la mia affermazione sarà anche esagerata, eppure qualche nesso tra questo trio e il mingherlino 45enne inglese dovrà pur saltar fuori. Esaurita l’estasi, Wilson non si scompone: “credo di vantare dei nessi con chiunque sia creativo e ambizioso. Nello specifico, con chiunque reputi la musica popolare troppo vuota, limitata, simile ad un veicolo di rincoglionimento di massa. I maestri che tu hai citato sono uomini che hanno contribuito a nobilitare la funzione e l’essenza della musica. Loro hanno pensato in grande, poiché sapevano e sanno che essa è qualcosa che va ben oltre il sottofondo rumoroso per tizi stupidotti”. Parole sante, che oggi appaiono fuori luogo; perché ci conducono ad un tasto dolente. I musicomani più eruditi, difatti, ipotizzano un’implosione del soggetto di cui stiamo parlando. Colpa del consumismo sfrenato, padre della superficialità. Si disimpara ad ‘ascoltare’: al suo posto subentra il balordo ‘sentire’… “Secondo me – conclude Wilson – questo processo d’implosione è in pieno corso. Oltre alla tua corretta osservazione, la musica continua a perdere motivi d’interesse perché moltissima gente ritiene – erroneamente – che essa non assuma, o non debba assumere, alcun peso nel loro stile di vita. L’opposto di quello che in realtà dovrebbe essere. Per 9/10 della popolazione industriale, le sette note sono dei riempitivi per sale d’attesa”. Parafrasando Brian Eno… ‘Music For Airports’. (FP)
Alla ricerca della felicità
( Altro articolo sempre a cura di Filippo Pagani per Metal Hammer ) ( Photo credit Naki ) Filosofeggiare è un parolone. Significa ‘ragionare da filosofo’ anche se filosofi non lo si è. Innanzitutto, bisogna esserne capaci. E per esserne capaci biosgna perlomeno avvalersi di una capacità dialettica alquanto arguta, coniugata ad una profondità di pensiero che insulta quella dell’opinionista/tuttologo da televisione e, volendo, schernisce quella del giornalista medio che si crede culturalmente intoccabile perché conosce a memoria tutte le locuzioni latine ormai scolpite nel granito della Storia. Direttamente da uno di questi ‘esseri superiori’, stipendiati dalla Tv pubblica, giunge una notizia sbalorditiva: in base ad uno studio condotto da un’equipe di ricercatori americani, la piena felicità si tocca al raggiungimento dei 70 anni, e prosegue quasi incontrastata fino ad un attimo prima di esalare l’ultimo respiro. Tardi, già. Viene da domandarsi il perché. Abbiamo girato l’interrogativo (seguito da un ‘secondo te’) a Steven, che filosofo accademico non è, ma in compenso detiene i requisiti del sofista.Ecco la prima opinione in merito: “Non mi stupisce più del normale, questa affermazione. Quella è un’età in cui ci si può voltare, guardare quello che si è combinato ed accennare un minimo sorriso compiaciuto. Dei tanti traguardi che uno si può prefissare in gioventù, almeno una buona metà (i più importanti, secondo una normale ponderazione) saranno già stati raggiunti dopo sette decadi di esistenza”. Segue a ruota il secondo parere: “Volendo, si può anche supporre che a settant’anni si è maturi a sufficienza per non temere più l’arrivo della morte. La felicità, poi, risiede nel fatto che ci si sta avvicinando alla soglia dei tre quarti di secolo. Una media di longevità piuttosto alta, a ben guardare proibitiva per parecchie persone, sfortunate per ragioni geografiche, economiche o genetiche”. Non è che la ricerca della felicità sia priva di scadenza? Non è che essa, forse, implichi la disponibilità ad abbandonarsi al filosofeggiare, al confronto libero, al sensato dubbio che la vita superi le barriere della fisica e della biologia? (FP)
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