Fear of a Blank Planet

Periodo sicuramente positivo per Steven Wilson che dopo l’ottimo   lavoro portato avanti con il progetto parallelo Blackfield, di cui trovate  la recensione nella nostra rubrica, segna un altro centro con la sua  prima formazione nata a Hemel Hempstead nell'Hertfordshire  inglese.
Dopo il non entusiasmante “Deadwing” (2005), non vi nascondo che era con un po’ di titubanza che aspettavamo l’uscita di questo nuovo album.
Spesso accade nel mondo del rock progressive che quando ti aspetti un capolavoro a seguito di una precedente pietra miliare, resti inevitabilmente deluso e quando invece non hai aspettative resti piacevolmente sorpreso.
Un perverso movimento di maree musicali che per fortuna questa volta ci ha permesso di tornare ad apprezzare non solo le capacità tecniche di Wilson e compagni, ma anche il gusto musicale nella composizione e nell’arrangiamento.
Tornano quindi i veri Porcupine con un album progressive in toto.
Sicuramente il pezzo che inquadra in maniera precisa l’album è “Anesthetize”, che con i suoi 17 minuti abbondanti di durata la fa da padrone sulle altre tracce.
In questo pezzo ritroviamo qualche citazione, voluta o meno, alle quali Wilson e compagni sono avvezzi.
Gavin Harrison infatti ci regala nella prima parte una batteria anche troppo simile a quella di Nir Zidkyahu in “The dividing line” (Genesis - Calling All Station - 1997)   e alcune atmosfere e ritmiche di chitarra, nella parte centrale del pezzo, non possono non richiamare “Talk” degli Yes.
Il pezzo è di fatto un album nell’album, presentandosi come una suite ben amalgamata di sonorità elettroniche (anche nuove per la band) ed elettriche con chitarre estremamente sature, che ricordano anche in questo caso i suoni dei migliori Archive di “You all look the same to me”.
Niente da eccepire quindi per questo piccolo gioiellino di progressive, che in 17 minuti spazia da melodie dolci e sognanti a ritmiche dure e spezzate, su cui Gavin Harrison può finalmente dare libero sfogo alla sua dirompente tecnica, affiancato da una doppia cassa mitragliata e incastri che ritroviamo di solito in generi ben più duri.
Il nostro pezzo preferito è sicuramente “Sentimental”, che ci rassicura sul fatto che anche in questo ambito musicale, non occorre avere una canzone dalla durata biblica, per realizzare un ottimo brano.
La nenia di Steven Wilson, prima pulita, poi affiancata da controcanti processati attraverso vocoder, ci regala veramente qualche emozione, così come i suoni scelti per l’atmosfera di questo splendido pezzo.
Tutto il resto dell’album è comunque un ottima prova di maturazione musicale, dovuta sicuramente anche alle nuove esperienze portate avanti da Wilson con Aviv Geffen e da progetti paralleli degli altri componenti della band.
Per lo più l’album si presenta con le atmosfere cupe e malinconiche tipiche del gruppo, in cui però qualche apertura psichedelica lascia sempre intravedere un raggio di sole che filtra attraverso i cieli neri dipinti dalle note del quartetto.
Forse è proprio la convivenza di questo contrasto di malinconia e speranza che è sempre così evidente nei pezzi dei Porcupine Tree, che ci affascina tanto.
Splendide anche la title track di apertura che da il nome all’album e “My Ashes”, che ci tranquillizza con le chitarre acustiche di Wilson che ormai conosciamo bene.
Unica nota di demerito forse per l’ostinata e troppo cupa “Sleep Together”, che risulta un po’ monotona, non rendendo probabilmente giustizia al crescendo che il gruppo si era riproposto di ottenere.
Niente a che vedere con una analoga “Lights” (Archive – Lights – 2005) che nonostante la ripetitività dell’arrangiamento, riesce veramente a creare l’atmosfera che il pezzo si prefigge di trasmettere.


Di: Massimiliano Mattei Da: Terni in Rete

Fear of a Blank Planet

Rumori di dita che scorrono veloci sulla tastiera di un computer, prima di un ritmo frenetico che ci introduce nel nono disco dei Porcupine Tree, vero e proprio concept album.
Fear of a Blank Planet, la title track che apre le danze, illustra da subito le tematiche del disco. Attraverso il racconto proveniente dalla voce del bambino protagonista, i Porcupine Tree descrivono sensazioni di alienazione e apatia, indotte nei giovanissimi dall’utilizzo smodato e incontrollato delle moderne tecnologie, e dalla crescente dipendenza che esse inducono nelle menti troppo spesso abituate ad avere tutto e subito. Nel raccontare questa crescente perdita di stimoli e interessi, verso una sempre più veloce e superficiale catalogazione e classificazione di noi stessi, i Porcupine Tree, guidati da Steven Wilson, utilizzano suoni e soluzioni estremamente moderni, e con l’atmosfera oscura dipinta dalle sei canzoni che compongono l’opera, cercano di sottolineare l’inquietudine indotta da tanta modernità. Pur senza gettarsi in ardite sperimentazioni elettroniche futuribili, la band di Wilson crea strati sonori limpidissimi, abbaglianti nella loro perfezione, lasciando una fredda sensazione sulla pelle, resa ancora più glaciale dai semplici ma efficaci inserti elettronici, per non parlare degli straordinari momenti tastieristici, malinconici e sognanti, guidati da Richard Barbieri. In certi momenti chitarre pesanti e distorte, dalle accordature ribassate, contribuiscono a creare quel distacco tra mondo reale e mondo virtuale che anestetizza la mente dei giovani protagonisti. Testi semplici e diretti, come le parole di un bambino, ma anche come le sensazioni che scorrono dentro ognuno di noi. Una critica feroce alla velocità della società odierna, che mastica e poi sputa ogni forma artistica, prima ancora di averla digerita e metabolizzata, Wilson, noto per la sua prolificità compositiva, cerca di limare al massimo ogni angolo, per non lasciare nessun momento di calo. In 50 minuti bilancia perfettamente il lato più sperimentale della sua musica con quello più classicamente pop, non ha paura di richiamare un po’ di sana psichedelica ma soprattutto di proseguire quella via prog-metal che lo accompagna dai tempi di In Absentia. Le canzoni non sono dilatate come ai vecchi tempi, ma precise e compatte, pulite e rifinite, perdendo forse un po’ di fascino misterioso ma acquistando una decisione ed una sicurezza necessarie per affrontare con lucidità le tematiche del concept, come l’annientamento della coscienza critica.
Il pezzo di apertura è un immediato richiamo al rock di Deadwing (2005), con la sua frenesia e velocità, quasi ripetitiva nella prima parte, prima di un finale dal sapore progressivo e vagamente psichedelico davvero strabiliante. Una cantilena grottesca e volutamente forzata che esalta l’assenza di volontà di svegliarsi e di dare una scossa alla propria dipendenza, una sorta di nevermind di nirvaniana memoria, che diventa evidente nel richiamo testuale ai Pearl jam (autori di una canzone come Jeremy che affronta problemi analoghi, anche se in maniera diversa). Il suicidio non è una via d’uscita, né una vendetta, né un grido d’aiuto, neanche il suicidio può cambiare qualcosa. E comunque sia, non importa che cambi qualcosa.
My Ashes, secondo capitolo dell’opera, è una ballata che si snoda su una melodia malinconica dapprima accompagnata da pianoforte e chitarra acustica, poi innalzata da un magistrale utilizzo degli archi, che la rendono epica e grandiosa, nel corso dell’emozionante ritornello. Perfetta sintesi dell’intimità nostalgica e della epicità sinfonica dei Porcupine Tree del nuovo millennio.
Ma il fulcro del disco è indubbiamente il brano centrale, la lunga Anesthetize. Brano complesso ma incredibilmente scorrevole, si dimostra fondamentale sia dal punto di vista lirico che musicale. Indubbiamente una delle composizioni più coraggiose e particolari di Wilson, miscela perfetta delle varie passioni musicali del musicista inglese, ma dotata soprattutto di una personalità vibrante, che la rende una vera e propria perla nel panorama progressivo contemporaneo. Strutturata in tre parti molto diverse tra loro, scivola con semplicità come le onde del mare sulla sabbia, fino al malinconico finale. Una prima parte estremamente percussiva e sognante caratterizzata da un utilizzo molto particolare della voce, alta e sospesa al di fuori della mente….poi una profonda caduta, tra riff monolitici, gommosi e rallentati, degni dei migliori Meshuggah, e stacchi elettronici, psichedelici nel loro techno-ritmo ipnotico, fino a vere e proprie esplosioni di furia travolgente (ottimo il lavoro di Gavin Harrison dietro le pelli), prima dell’ultima parte, una lenta e sognante serie di onde pink floydiane, per narrare con tragica malinconia la perdita di se stessi, la dissociazione ormai avvenuta, l’eclissi finale. Il dolce e malinconico ricordo di sensazioni autentiche e calde, che lentamente svaniscono e ci abbandonano al grigio opprimente della polvere. 17 minuti assolutamente magici, dal forte sapore sperimentale ma anche emotivo, assolutamente tra i momenti migliori della discografia dei Porcospini. Da notare il bellissimo assolo di chitarra, composto e suonato da Alex Lifeson dei Rush.
Sentimental è una semplice ballata guidata dal pianoforte, vicina ai pezzi più malinconici dei Blackfield (side project di Steven Wilson dal sapore pop), travolgente nel suo ritornello, molto orecchiabile ma altrettanto intenso. Quarta traccia del disco, segna la sentimentale presa di coscienza di fronte ad un’incapacità di ogni reazione. C’è un barlume di speranza, una piccola fiammella che ancora brucia dentro, c’è ancora ossigeno.
La voglia di fuggire e di reagire con forza si ha nella successiva Way Out of Here, ma non è dato sapere se lo svanimento sarà una via di fuga o semplicemente l’ennesimo modo per anestetizzarsi di fronte al nulla che ci circonda, gettandosi tra le sue braccia. Grazie ad un utilizzo della voce molto emotivo, sentito, sincero, in contrapposizione ad una musica che mischia basi elettroniche e chitarre metal, questa traccia si dimostra uno degli apici del disco. Un ritornello che richiama certe atmosfere dream theateriane, ma con qualche accorgimento sperimentale in più, e un finale ipnotico guidato da Robert Fripp, aumentano il fascino prima della canzone conclusiva, Sleep Together. Quest’ultima è un salto nell’ignoto, una fuga lontano da ciò che si è stati, una piccola rivoluzione che conclude in maniera misteriosa e affascinante il percorso iniziato, al contrario, con l’apatia e l’anedonia. Musicalmente coinvolgente per la sua capacità di far convivere con naturalezza un ritornello classicamente rock (dal sapore Beatles) a parti elettroniche che prima fungono da tappeto alla malinconica linea vocale del verso, poi sovrastano ogni strumento nella grandiosa fine, ipnotica e circolare, come una spirale, che lascia ogni domanda in sospeso, prima di una rullata finale, nel vuoto, come una porta che si chiude, improvvisamente.
I Porcupine Tree, per l’ennesima volta, si confermano una delle più interessanti band del panorama rock, grazie anche ad una personalità solida e ben definita. Nessuna rivoluzione, semplicemente musica emozionante e per niente banale, più semplice di quanto possa sembrare dai curatissimi arrangiamenti, e al tempo stesso più complessa e intensa di quanto si possa pensare in base alle melodie immediate e orecchiabili. Una musica da scoprire, assorbire e metabolizzare lentamente, senza la frenesia vorticosa che caratterizza la società attuale


Di: InnerNeurosis at Forum

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